21.8.22

La guerra è il mio nemico

Nel primo articolo della rubrica RecenTips vi segnaliamo e facciamo una recensione di due eventi, visibili su YouTube e promossi da Emergency, sulla guerra. Li abbiamo scoperti partendo da una frase di Gino Strada postata sui social dalla ONG a un anno dalla sua scomparsa.


 

 

<<L’antidoto alla guerra sta nella costruzione dei diritti umani>>: è la frase pubblicata dopo un anno senza Gino Strada, chirurgo di guerra e fondatore della ONG Emergency, che presta servizi medico-chirurgici a vittime di guerra e povertà. È passato anche quasi un anno dalla riconquista dei talebani dell’Afghanistan, e alle decine di conflitti armati del pianeta si è aggiunto quello ucraino ovviamente (anche se si potrebbe datare come iniziato nel 2014, anno in cui è stata invasa la Crimea).

La “frase-slogan” è tratta da un evento dedicato a studenti delle superiori,  tenutosi nel 2018, dal titolo “La guerra è il mio nemico. Volume 2” e moderato da Camila Raznovich. Abbiamo visionato anche la prima edizione dell’incontro annuale che si è tenuto di fronte a circa 20.000 studenti collegati in diretta. Negli ultimi anni il consueto appuntamento ha cambiato titolo.

L'intento era cercare delle risposte a questioni relative alla guerra: <<si può evitare una guerra? I governi possono scegliere di non bombardare o uccidere? L’impegno delle persone comuni può ostacolare la costante corsa alla guerra?>>. Come ricordava il fondatore di Emergency è molto difficile dare delle risposte sintetiche a questioni così complesse, e proprio per questo dobbiamo cominciare a parlarne e a rifletterci su…





La “normalità” della guerra

Un concetto emerso dalle parole delle prime due relatrici dell’edizione del 2108 riguarda la dimensione della guerra percepita come “normale” da chi nasce o vive da molti anni in essa.

Michela Paschetto infermiera della ONG, spiega che la vita di molti paesi va avanti <<nonostante la guerra>>, mentre ai nostri occhi potrebbe sembrare che tutto viene “congelato”, messo in secondo piano per il conflitto, ma non è così: lì non esiste “solo” la guerra, mentre purtroppo esiste un’ <<abitudine alla guerra>>.

Parlando della sua professione spiega che non c’è un motivo particolare dietro la scelta di operare in aree di guerra, e sicuramente uno stimolo fondamentale viene dalla curiosità verso quel particolare tipo di “medicina d’emergenza”, diversa da quella dei nostri ambulatori.

Rossella Miccio, subentrata come presidente di Emergency a Cecilia Strada, parla dei diritti delle donne e del centro chirurgico-pediarico di Anabah, poi diventato anche centro di maternità in Afghanistan: racconta che all’inizio molte persone dicevano che erano dei <<pazzi a voler aprire un ospedale per le donne in una remota valle del Panshir>>: a quasi vent’anni di distanza quell’ospedale, e centro di formazione, è la conferma di una scelta lungimirante e obbligata, considerando il tasso di mortalità materna tra i più alti al Mondo della zona.

Si presenta poi il centro di riabilitazione e re-integrazione sociale di Sulaimaniya nel Kurdistan iracheno: è una sorta di “startup” dove, dopo la riabilitazione fisica di mutilati e disabili, si tengono dei corsi di formazione per attività di artigianato compatibili con le diverse abilità, e che quindi vanno oltre la “cura fisica” e si attivano per il reinserimento socio-professionale. Molte delle menomazioni sono il risultato delle mine antiuomo, ordigni che restano anche dopo che vengono siglati accordi di pace, dopo la fine di bombardamenti e scontri a fuoco: anche <<le conseguenze della guerra sono lunghissime>>, come quelle delle mine nascoste sottoterra, e incidono <<sulle infrastrutture ma soprattutto sul tessuto sociale!  Possono passare decenni prima che si ricostruisca il tessuto sociale perché i rapporti vengono dilaniati e distrutti come è accaduto in Sudan: è il paese che ha visto la più lunga guerra civile in Africa. Lì la pace è stata firmata nel 2005 ma la guerra è andata avanti fino al 2011, quando Sudan e Sudan del Sud si sono separati, e le conseguenze si pagano ancora>>.

Ritornando sul tema della “normalità” della guerra per molte persone e invitando a essere curiosi mettendosi nei panni dell’ “altro”, racconta che <<un giorno mentre ero in Afghanistan ho dovuto spiegare a una famiglia che in Italia non ci sono i carri armati, non ci sono i posti di blocco>>. Gino Strada, allo stesso appuntamento dell’anno precedente, proponeva questo esperimento di immedesimazione: prendete la foto di una vittima della guerra, ritagliate via il volto e incollate sopra quello di un vostro caro.

Viene sottolineato poi uno dei valori fondanti dell’organizzazione, quello dell’uguaglianza e della dignità che si traduce nel cercare di fornire cure nella migliore maniera possibile a tutti, e non solo dove non c’è la guerra e nelle aree più ricche del pianeta:  bisogna <<considerare l’altro uguale a noi, trattare le persone come vorremmo essere trattati noi>>.







Rispondendo poi a una domanda su terrorismo e guerra e dopo aver specificato che il 90% per cento delle vittime delle guerre sono civili, dà una risposta agli interrogativi “sui massimi sistemi” dei conflitti: <<la guerra è una scelta, come lo sono gli attentati terroristici, non è semplicemente un qualcosa di innato, legato al fatto che c’è la conflittualità tra gli esseri umani! La guerra deve essere organizzata, pianificata, c’è bisogno di strumenti. Quindi bisogna sedersi a tavolino, decidere di destinare risorse economiche, umane. È una scelta e, come tale, può essere evitata: basta voler provare ad escludere quest’opzione (…) Per tante persone la differenza tra un bombardamento o l’autobomba non è così tanta>>…

Rispondendo poi a un’altra domanda ricorda anche l’azione della ONG in Italia con l’omonimo programma che non assiste solo migranti: statisticamente la terza nazionalità assistita dal programma in quell’anno è proprio quella nostrana. Sono principalmente disoccupati e persone senza residenza, perché se non si ha una residenza fissa non si può accedere al servizio sanitario nazionale.

L’ultima domanda riguarda la sicurezza di chi, come loro, lavora in contesti problematici: la scelta strategica è quella di non avere una scorta armata, che potrebbe renderli un possibile obiettivo, di offrire i propri servizi a tutti con la massima professionalità e impegno, insieme alla riconoscibilità “visiva” e reputazionale.

Il ruolo della stampa, le semplificazioni e distorsioni della realtà, il bisogno di documentare e di fare qualcosa contro la guerra

Il giornalista Giampaolo Musumeci sul ruolo della stampa nel parlare delle guerre afferma che <<sono poco raccontate ma soprattutto mal raccontate perché ci vogliono tempo e soldi>>. Nel mondo dell’informazione mancano realtà editoriali disposte a impiegare le ingenti risorse necessarie a raccontarle: <<anche i grandi giornali mandano un inviato per 3 o 4 giorni>> facendo perdere la complessità degli eventi, mentre come <<free-lance posso stare un mese o 5 anni sulla storia>>. Cosa che ha fatto parlando della filiera del coltan e dei traffici connessi. <<Dobbiamo abbracciare la complessità>> dei problemi perché oggi <<i media, i giornalisti come i politici inseguono il consenso. Dobbiamo fare ascolti, dire cose facili (…) se accendiamo la televisione e vediamo le miniere di coltan uno cambia subito canale e dice “che palle” –scusate il francesismo>>.

Anche lui parla del tema della sicurezza e spiega che la preparazione è fondamentale, insieme alle basilari nozioni di pronto soccorso che si rivelano cruciali.

Discutendo a proposito dei “massimi sistemi” della guerra afferma, contrariamente a quanto detto dalla presidente di Emergency e di Gino Strada, che le guerre purtroppo esisteranno sempre ma che, tramite l’applicazione delle norme giuridiche internazionali e il rispetto dei diritti umani se ne possono limitare le conseguenze, nonostante apprezzi la visione “utopistica” espressa dalla ONG.






Un’altra testimonianza, raccolta nell’evento del 2017, è quella di Giles Duley, fotoreporter britannico. Presenta una sua foto di un bambino di dodici anni, forse un combattente, in Sud Sudan. Racconta dell’ “ospedale” costituito da delle baracche e del dottore che lascia quella stanza dopo aver scosso la testa: <<fare una fotografia in quel momento va contro tutti gli istinti umani, anche se sono lì per raccontare la verità. Così dopo qualche scatto mi sono seduto a fianco a quel bambino morente>>… Al dottore dopo, in piena crisi di coscienza, spiega di non essere in grado di continuare il suo lavoro e di sentirsi come un avvoltoio e inumano. Il dottore, australiano, gli spiega che proprio immagini come quella lo hanno spinto a diventare un medico di guerra.

Il fotoreporter poi perderà un braccio in Afghanistan dopo aver calpestato un ordigno: <<ho ancora il braccio destro e posso ancora vedere. Sono un fotografo, ed è questo che mi mantiene vivo>>, e dopo un anno in ospedale è ritornato in Afghanistan all’ospedale di Kabul di Emergency.

Su come agire in concreto contro la guerra penso che due siano i concetti più importanti espressi da lui: <<Non basta dire io sono contro la guerra stando seduti a casa: alzate la voce contro la guerra, fatevi sentire (…) I politici hanno una debolezza, una vanità: vogliono il potere. Ma siamo noi che diamo loro il potere, quindi se un politico pensa che siamo tutti contro la guerra, quello è l’unico modo in cui possiamo creare un cambiamento>>.

Sempre tra i relatori del primo appuntamento de “la guerra è il mio nemico” c’è la giornalista Francesca Mannocchi, il cui intervento risulta ancora più critico verso il ruolo dei media: <<negli ultimi anni è stato fatto un maquillage dell’informazione a un’opinione pubblica intorpidita: solo manipolando i media possiamo giustificare il fatto che alla violenza si risponde con la violenza (…) se accettiamo che vengano sterminate le famiglie dei miliziani dell’ISIS perché non sappiamo come reintegrare i loro figli nella società questo è un fallimento>>, mentre invece potremmo prevenire la loro radicalizzazione e prevenire una nuova guerra, oppure si potrebbero impedire i crimini di guerra contro gli esponenti dello stato islamico. Poi racconta del primo prigioniero dell’ISIS che ha intervistato, il quale le ha raccontato di essersi unito all’ISIS nel 2003 (quando è iniziata la seconda guerra del Golfo) e che la guerra era l’unica cosa che aveva visto da bambino: <<per me l’intervista poteva finire lì!>>.

Colpisce anche la sua visione “etero-attributiva” della responsabilità su una certa <<deriva>>  dell’opinione pubblica sui temi che ruotano intorno all’accettazione del diverso in Italia: forse il paese ha preso una certa piega <<non perché il nostro vicino è cattivo e ignorante, ma perché noi non abbiamo fatto abbastanza, forse io non ho fatto bene il mio lavoro (…) io non devo solleticare il mio ego convincendo chi la pensa come me, io devo convincere chi la pensa diversamente da me. Devo spiegare a quelli che vogliono rifiutare le persone che scappano dalla guerra cosa questo significhi. Se tante più persone non lo accettano vuol dire che io non sto facendo abbastanza, non sto facendo bene>>.

 

Non c’è l’invasione di migranti: bisogna riaprire i canali legali per le migrazioni

Il sociologo Stefano Allievi parla del fenomeno della migrazione e spiega che <<non ci siamo mai mossi così tanto come oggi>>  a livello globale grazie alla facilità degli spostamenti offerti dai nuovi mezzi di trasporto. Le migrazioni avvengono principalmente per 5 fattori: la disuguaglianza economica; la disuguaglianza demografica (le popolazioni “occidentali” sono più anziane) e un altro fenomeno a essa strettamente connessa, ossia la l’urbanizzazione (e quindi la sovrappopolazione); i cambiamenti climatici con l’aumento della desertificazione, la riduzione di terre coltivabili e di acqua potabile; e infine la guerra, inclusi i conflitti che non vengono considerati ufficialmente come tali, come per esempio avviene nei paesi dove vige il servizio militare permanente.

Presentando una serie di statistiche, tra cui quella in cui si afferma che solo il 3% della popolazione mondiale è migrante, si spiega che il grosso delle migrazioni avviene verso paesi vicini e non verso quelli più ricchi (meno di un decimo) e che, tra l’altro, <<in Italia quelli che escono sono più del doppio di quelli che sono arrivati l’anno scorso. Dov’è l’invasione?!>>.

La soluzione offerta dal sociologo è una: <<negli ultimi 30 anni l’occidente ha chiuso tutti i canali regolari di migrazione, tutti! Per cui si può arrivare solo illegalmente>> e fa un parallelismo col proibizionismo degli alcolici negli USA: bisogna riaprire i canali legali di migrazione. Rispondendo a una domanda su come abbattere la diversità dice semplicemente: <<la paura della diversità si combatte sperimentando la diversità>>, creando rapporti umani e diretti con ciò che viene percepito come diverso.

Dalla paura del neo-fascismo all’abolizione della guerra

L’ultimo ospite è Gino Strada: spiega che la scelta di fondare la ONG deriva semplicemente da una reazione umana al fatto che negli scenari di guerra le vittime erano praticamente lasciate a loro stesse, una reazione umana di disgusto verso i corpi maciullati, l’odore di carne bruciata, di escrementi: <<ho visto persone che venivano ricevute da un medico con la ricetta delle medicine che servivano e finiva lì>>. Anche all’appuntamento dell’anno precedente spiegava che durante le sue prime esperienze vedeva arrivare centinaia di feriti al giorno che venivano semplicemente accuditi dai familiari: <<immaginate che si verifichi un attentato. Se arrivano 50 feriti in un ospedale qui in Italia la struttura va nel caos>>.

Parla poi della paura di un “sintomo” che lo preoccupava del presente, ossia dell’ascesa del <<fascismo che per definizione è razzismo>>: oggi ci chiediamo come sia possibile l’ascesa del nazi-fascismo nello scorso secolo, ma le ragioni sono le stesse che ci fanno assuefare alle notizie di qualcuno che viene picchiato o comunque discriminato per il suo colore della pelle o per la sua età, le stesse ragioni per cui rimaniamo in silenzio quando accadono episodi del genere.

La “malattia” della discriminazione è la stessa alla base della logica della guerra, un atteggiamento che di solito si sviluppa <<verso chi è più “in basso” di noi>>: <<io credo che in Italia un sacco di persone che votano per partiti razzisti, come la Lega, sono davvero convinti che loro non stanno bene come potrebbero per colpa di quelli che arrivano con i barconi, non per colpa di quelli che licenziano come vogliono, sfruttano, usano il lavoro nero… No, la colpa è di chi sta in basso. Ciò denota un deficit culturale spaventoso ed è molto allarmante>>.

La cura per questa “malattia”, la “terapia” per porre fine alle guerre è <<la costruzione dei diritti umani, sta lì l’importanza della dichiarazione dei diritti umani del ’48 (…) è l’unico antidoto, l’unico fondamento possibile di un Mondo giusto di pace>>, ma negli ultimi settant’anni non sono stati fatti passi concreti: <<bisogna costruire diritti, praticare diritti, e bisogna far nascere la consapevolezza che –aveva ragione Einstein- la guerra si può solo abolire! Non si può né modificare, né rendere più umana. Pensiamo alle convenzioni di Ginevra: ho letto migliaia di pagine, ma quando mai le avete viste rispettate?! Sono cose che funzionano solo in tempo di pace: se noi abbiamo deciso di ammazzarci ci mettiamo a discutere e a dire “non farmi male”>>. L’abolizione si realizza <<all’interno delle nostre teste, delle nostre coscienze>>. Sempre nell’incontro dell’anno precedente dichiara che le guerre giuste non esistono e che le vere cause, inerenti soldi e potere, sono celate da menzogne.

Parla poi delle armi nucleari e della possibilità di autodistruggerci e, citando di nuovo Einstein, spiega che non si è mai visto un topo costruire una trappola per topi: proprio per questi sviluppi tecnici la guerra <<è un gioco che non possiamo più permetterci>>.

Il consiglio conclusivo pratico è quello di <<sostituire la parola guerra con “sterminio di civili”>>. Si ripete che il 90% delle vittime dei conflitti armati sono per l’appunto civili, che non è un qualcosa di <<tecnico>> e che la realtà della guerra è diversa dall’<<atto politico>>: <<è dolore, sangue e puzza di merda! (…) è gente che perde un arto, la casa, tutto, e nella maggior parte dei casi non sa neanche il perché>>.

Infine ci tiene a ricordare che nel 1928, mentre si firmava il trattato di rinuncia alla guerra a Parigi, il partito nazista in Germania non arrivava nemmeno al 2%. Cinque anni dopo Hitler era al potere.


Paolo Maria Addabbo


 



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